Susie Hoevenaars vive a Victoria, in Australia. Il suo esordio nel mondo dei cavalli… di fatto non c’è mai stato per un semplice motivo: lei è nata nel mondo dei cavalli. In Tasmania, un’isola al largo della costa meridionale dell’Australia. Un luogo da sogno e tuttavia un po’ ‘periferico’ per chi vuole una carriera nel mondo equestre e per di più del dressage. Ma Susie…
Oggi giudice 5* con un curriculum eccelso, Miss Hoevenaars racconta la la sua storia
Come e dove è iniziata la sua ‘storia’ con i cavalli? E dove e perché proprio il dressage?
«Abitavamo in campagna e mio padre possedeva dei cavalli da corsa. A 6 anni ho cominciato a implorarlo perché mi regalasse un pony… Il suo nome era Jenny, una Shetland baio scuro con una spiccata personalità… È stata Jenny a insegnarmi a montare. Dopo l’università ho lavorato come giornalista televisiva e in quel periodo montavo gli ex cavalli da corsa di mio padre. È con loro che in me è cresciuta la consapevolezza che l’addestramento avesse grandi margini e da lì il dressage mi ha conquistato in maniera totale: come amazzone, organizzatrice di concorsi e come giudice nazionale».
Susie, come si è sviluppata la sua carriera di giudice?
«Nel 1995, Mariette Whitages venne a giudicare in Australia e ciò fu importante nella mia carriera di giudice internazionale. Al tempo montavo ancora e lei organizzò per me molte occasioni per farmi invitare ai concorsi in Europa. Nello stesso anno, a pochi mesi dall’incontro con Mariette, la mia federazione mi spinse a partecipare al seminario per Candidati Giudici a Hickstead tenuto da Eric Lette. Anche lui ebbe un ruolo fondamentale nella mia formazione. Passai il corso e presi la qualifica di giudice 3*. Sono stata molto fortunata ad essere invitata a giudicare molte volte in Europa negli anni successivi. Tuttavia ciò ha significato molti mesi lontano dal mio lavoro (allevare e addestrare cavalli con mio marito Fred). L’Australia è dall’altra parte del mondo e il cuore del dressage batte in Europa… Quindi significava anche che, se volevo essere un buon giudice, avrei dovuto viaggiare molto. Non bastava prendere un treno o guidare oltre il confine. Quindi ho messo in conto fin dal principio tante ore di volo e viaggi lunghissimi. Se metto insieme tutti i chilometri che ho percorso sono l’equivalente di andata e ritorno dalla luna… Almeno un paio di volte. Fortunatamente avevo parte della mia famiglia in Olanda che mi ha accolto spesso e volentieri. Così sono diventata dapprima giudice 4* e poi 5*. Ho avuto la fortuna di giudicare nei Campionati più importanti, ai Weg, agli Europei, ai World Breeding Championships, in Coppa del mondo e alla fine ai Giochi di Tokyo.
Aachen è un concorso magnifico. Sono più volte stata là in Giuria e ciò per me è un grande onore. Mi sento privilegiata ad aver avuto la possibilità di giudicare binomi straordinari provenienti da ogni parte del mondo».
Secondo lei, quale dovrebbe essere la relazione tra i giudici e gli altri protagonisti della disciplina?
«La parola comunicazione è la chiave di volta del nostro sport. Il dressage è uno sport ‘a giudizio’ che si fonda su criteri prestabiliti. I giudici, ora più che mai, devono agire in maniera professionale, conoscere il proprio lavoro e avere fiducia nelle proprie capacità. Cosa fondamentale, i giudici devono valutare quello che vedono. Cavalieri, trainer e giudici sono responsabili del miglioramento dello sport, della sua apertura e massima comprensibilità. Per fare che ciò accada, dobbiamo lavorare tutti insieme. Dopo tutto, ciò che i cavalieri chiedono è solo una onesta valutazione del loro lavoro. I cavalieri e i trainer spendono una enorme quantità di energia e lavoro in ciò che fanno con i loro cavalli. Per un cavaliere, la priorità è produrre un buon cavallo da dressage, correttamente addestrato. Che è poi ciò che ricercano anche i giudici. Tuttavia il lavoro dei giudici non è affatto semplice. I giudici più importanti devono giudicare fino a 40 cavalli al giorno, su riprese che richiedono oltre 30 valutazioni ciascuna: ovvero circa 1400 valutazioni chiare e puntuali al giorno. Giudicare corrisponde a una abilità particolare. Non si tratta solo di tecnica e regolamenti. Si tratta piuttosto di essere in grado di vedere, assorbire… Sapere ciò che è ottimale, cosa è insufficiente, con tutto quello che c’è tra i due estremi».
Susie, che cosa si sente di suggerire alla Fei in materia di giurie e giudizi?
«Credo che la Fei dovrebbe promuovere più opportunità per discussioni più approfondite tra cavalieri, giudici e trainer. Sarebbe un passo in avanti sicuramente positivo. Servirebbe anche una maggiore attenzione alla psicologia dello sport come parte dell’addestramento dei futuri giudici internazionali. Per essere in grado di decidere in maniera ottimale, i giudici non devono solo conoscere i regolamenti e i requisiti tecnici di ciascun movimento. Devono essere altresì in grado di concentrarsi e operare al meglio anche sotto pressione, come per esempio capita in ogni campionato di rilievo. La psicologia nello sport può fornire un’assistenza importante nello sviluppo e nel potenziamento delle doti essenziali di ogni giudice. Con la fiducia e l’esperienza acquisite attraverso il nostro solido sistema di istruzione e formazione per giudici FEI, so di poter sedere in giuria alle Olimpiadi, conscia che, con i miei colleghi membri della giuria siamo tutti allineati “sulla stessa pagina”, e possiamo contare su un grande rispetto reciproco».