Le interviste di dressage.it: Norma Ridi

di Redazione

Apprezzata per la sua disponibilità al dialogo e la competenza, Norma Ridi è un giudice nazionale che ha visto crescere il dressage italiano al quale si è dedicata da sempre. Pronta a esserci quando chiamata, mai sopra le righe e sempre presente shadow-judge negli eventi di maggior richiamo, Norma è anche una apprezzata e appassionata trainer. Nata a Firenze ma residente ad Albizzate, in provincia di Varese, ha accettato di rispondere alle domande di dressage.it.

Ci può raccontare come e perché l’equitazione è entrata nella sua vita?

«A dire il vero… Non lo so. Potrei dire un colpo di fulmine da piccolissima, un amore viscerale che straripava da tutti i miei quaderni pieni di disegni di cavalli, ma in realtà non hanno mai potuto far parte della mia vita infantile se non in modo occasionale. Arrivata all’università invece mi sono trovata a vivere una vacanza-lavoro in un centro di equitazione di campagna, in Maremma, e nel giro di una estate mi sono trovata a vivere per tre mesi h24 a contatto con la mia passione, vedendone molti più aspetti di quanti avrei mai immaginato. Da lì poi, tornata a Firenze come studente di Fisica, mi sono iscritta all’unica scuola di equitazione presente in città, nella quale mi pagavo le lezioni facendo il groom, e anche, in conseguenza delle esperienze fatte, assistendo il maniscalco e il veterinario ad ogni visita. Successivamente, oltre alla patente FISE, sono arrivati tutti i diplomi di equitazione di campagna, fino al brevetto di Guida negli anni ‘80, che era una cosa di una complessità tale che davvero aveva il suo perché (comprendendo anche la topografia, la mascalcia di emergenza, il pronto soccorso umano e veterinario, la capacità di scegliere terreni e superare ostacoli naturali in sicurezza, oltre allo stare in sella per tempi che potevano essere di otto ore al giorno facendo in modo che i cavalli arrivassero senza danni al punto tappa)».

Come mai il dressage?

«In primis perché era il naturale risultato di una equitazione che ha una scala di tempi che non si esaurisce in una manciata di secondi. Perché richiede un affinamento di un rapporto di collaborazione e di complicità, di “ascolto” reciproco. Perché è l’evoluzione elegante dell’equitazione da lavoro, oltre che a quella della guerra, da cui deriva».

Norma, come e quando è diventata giudice di Dressage?

«All’inizio per curiosità. Avevo fatto le mie prime garette, e i voti talvolta erano un mistero. I commenti erano scarni e spesso non chiari. A me, che avevo pur sempre una forma mentis da fisico, i “perché” dovevano avere una risposta. Da qui, più di trent’anni fa, il corso giudici, e l’inizio di una nuova strada. Ho fatto in fretta ad appassionarmi, e la scelta di campo è stata netta: ho smesso con le gare e ho comunque continuato a montare a casa, per mia cultura. Perché ritengo che il “saper fare” sia importante per il “saper vedere”. Anche se so che fra le due cose non c’è una corrispondenza biunivoca».

Come si è sviluppata la sua carriera di giudice?

«Certamente, per motivi personali e professionali, non in modo costante e lineare. Ma la passione non è mai venuta meno, nonostante i momenti di sconforto (tanti) in cui avevo la percezione di non star facendo un lavoro di sufficiente qualità, di non rendere un servizio adeguato. E devo dire che questo è un tratto che comunque perdura, che ho dovuto imparare a imbrigliare e ad accettare – ma con grande fatica e non poco dolore».

Norma, secondo lei, come dovrebbe essere la relazione tra i giudici e gli altri protagonisti del dressage (atleti, istruttori, sponsor etc.)?

«Eh. Per una idealista come me… dovrebbe essere un rapporto volto soprattutto al benessere psicofisico del cavallo da un lato, e allo sviluppo mentale e interiore della persona dall’altro. Un lavoro immenso, per ogni singolo binomio, a qualunque livello e per qualsiasi età – specialmente, come è ovvio, per i più giovani».

Qual è la sua principale preoccupazione, se ne ha, quando entra in cabina?

«Potrei fare una lista…. ma quando entro in cabina, le metto tutte da parte. Se permettessi a una qualsiasi preoccupazione di farsi sentire, non riuscirei più a giudicare in modo razionale».

Qual è l’aspetto del dressage, come disciplina, che le piace di più e quale di meno?

«Il fascino del dressage è qualcosa di incredibile. È il risultato di energia, elasticità, armonia, complicità. Un bel binomio è una specie di “Roberto Bolle” del rettangolo, solo fatto di due corpi anziché di uno. Quello che mi piace di meno è che in qualche circostanza vedo rompere questa armonia in funzione del risultato agonistico. Perché viene a mancare il principio base, quello del rispetto reciproco e della complicità».

Norma, che cosa suggerirebbe ai responsabili FISE per migliorare la disciplina?

«Bella domanda… Diciamo che non li invidio, perché la strada è costellata di pietre e buche, oltre che dotata di risorse limitate per cui la coperta è sempre troppo corta. Quello che si sta facendo ora per i Children è perfettamente allineato con il mio concetto di dressage, e mi piacerebbe che in qualche modo venisse traslato anche verso i cavalieri meno in erba. Perché se è vero che quella è la strada per creare una generazione di cavalieri migliori in futuro (e sono perfettamente d’accordo), gli stessi principi di base sono applicabili a chiunque. È certamente più difficile, ma tutt’altro che impossibile, perché a differenza di tutti gli altri sport questo è abbastanza age-friendly, e richiede più buona volontà e disciplina che potenza fisica. Laddove una persona ha meno capacità fisiche, può avere più capacità mentali, in funzione della propria maturità».

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